IL TEMPO CORRE VELOCE
IL TEMPO CORRE VELOCE
BIOGRAFIA PROFESSIONALE IN
BREVE
di
GIOVANNA TATÒ
Al lavoro a Roma in una riunione del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti sulla deontologia, io unica donna (tra gli altri, in fondo Enrico Mentana e di profilo in primo piano Bruno Vespa)
Il tempo corre veloce. Si avvolge su se stesso, gira come una spirale, si arrotola, si srotola e si arrotola di nuovo. Difficile fermarlo.
Poco più che ventenne, studentessa universitaria squattrinata, riuscii a lavorare nel giornale della città. Venezia, bellissima, un sogno di merletti contro il cielo azzurro sulla laguna, silenziosa e affascinante. Mi aveva aiutato mio nonno Francesco Tatò. In linea paterna avevo in famiglia principalmente giornalisti: mio nonno, decano della stampa parlamentare, mio padre Antonio Tatò (ma preferiva farsi chiamare Tonino e quasi sempre così si firmava) che sarebbe stato scelto da Enrico Berlinguer come capo ufficio stampa del partito e suo braccio destro. Mia madre, il M° Erminia Romano, direttore d’orchestra fra le primissime donne a scegliere di andare oltre l’essere una solista di pianoforte, si occupava relativamente di noi figli. In base alle tradizioni di famiglia, come primogenita ero praticamente designata: e, soprattutto, avevo facilità e capacità di scrittura.
A “Il Gazzettino” di Venezia ero
apprendista, facevo piccole cose per imparare ad essere giornalista. Un giorno
seppi che sulla laguna viveva uno dei principali poeti del ‘900, Ezra Pound.
Controverso, amato e odiato, internato in un manicomio criminale, sostenitore
del fascismo e antisemita ma poi, ad Allen Ginsberg, davanti ad una birra,
disse che quella scelta era stata una cosa molto stupida. All’epoca, conoscevo
poco le sue opere, conoscevo meglio autori controcorrente e visionari come William
Burroughs, Allen Ginsberg e Jack Kerouac, ma amavo le sue straordinarie poesie
su Venezia. I suoi “Cantos”, iniziati a scrivere proprio in Italia, avevano
inchiodato e stregato più di una generazione. Lo rintracciai e mi concesse
l’intervista.
Il poeta americano
Ezra Pound
Ci incontrammo all’aperto, in
un bar. Non volle consumare nulla. Seduto davanti ad un tavolino vuoto, parlava
a voce bassa, i suoi occhi erano profondi e un po’ lontani. Si aprì, fu una
conversazione a tutto campo. Il giornale ne fu impressionato e dedicò
all’incontro tutta la terza pagina. Per me fu una gran sorpresa: sulla terza
pagina, quella della letteratura con la L maiuscola, il lavoro di una
principiante! Ormai è stata abolita ma allora era un mito per un giornalista,
scriverci era un approdo e un rito dedicarsi alla sua lettura.
Poco tempo dopo, sorpresi di nuovo tutti con un’altra intervista a tutto campo, questa volta ad un famoso mercante d’arte svizzero.
E intanto continuavo a fare piccole
cose. Mi chiesero una rubrichetta sugli arrivi dei personaggi famosi in città.
Mi organizzai con il portiere di uno dei più grandi e rinomati alberghi e così seppi che era arrivato Luchino Visconti. La sua fama di regista innovatore e la sua storia di nobile “impegnato” aveva varcato i confini nazionali. Insieme a lui, Romy Schneider. Andai a curiosare ma Visconti, il viso severo segnato da quelle grosse sopracciglia, si rifiutò di fare una vera intervista: mi disse solo che era lì per il sopralluogo di un film con Romy Schneider. Il titolo provvisorio era Il Vicario - inteso come “vicario di Cristo”, probabilmente dall'omonimo dramma di Rolf Hochhuth, un titolo prerogativa del papato ma che l’attuale Papa Francesco ha fatto scivolare in secondo piano - e si incentrava sulla Curia romana, un tema che avremmo ritrovato in un altro nume del cinema italiano, Federico Fellini. Il progetto di Visconti non andò in porto. Rimasi incantata da Romy Schneider. Non parlava molto. Seguiva Visconti passo passo e sorrideva con tutta se stessa, con gli occhi azzurri come un lago di montagna, con la pelle di porcellana, con le labbra ancora fanciullesche.
Era davvero bella: piccola e
splendida, un profilo di finezza aristocratica, i capelli dorati, una puppelé, una
bambolina adorabile, come la chiamava Alain Delon al tempo del loro grande
amore.
Arrivarono un giorno anche le
gemelle Alice ed Ellen Kessler: alte, statuarie, gambe lunghissime, il viso
molto più bello di come appariva in televisione. Foto. Capii il loro successo.
Le mie notiziole piacevano ma io volevo
qualcosa di più. Presto quella stagione finì. Trovai lavoro a Milano,
all’ufficio stampa della Casa Editrice Rizzoli. Sull’allora incontrastato Corriere della Sera recensivo, in
seguito ai rapporti fra casa editrice e quotidiano, i libri appena pubblicati
ai quali l’editore teneva di più. E ancora una volta sulla nobile scomparsa, la
Terza Pagina. Piccole critiche letterarie ma funzionavano. Il libro si vendeva
e la casa editrice confermava il proprio prestigio. Mi veniva dato lo spazio
dell’ormai estinto elzeviro, una eccezione per una sconosciuta o quasi.
Entrai in contatto con i
salotti letterari milanesi. Una sera, mi ritrovai in un bell’appartamento in
centro per un aperitivo. Mi indicarono una signora elegante, riservata, che
sedeva solitaria su un divano. Era Giulia Maria Crespi, la proprietaria del Corriere della Sera. Lì per lì presi la
sua riservatezza per altezzosità, ma poi nel corso della serata scoprii che era
proprio di indole riservata. Ma anche autoritaria, a conferma della sua fama.
In quella stessa occasione conobbi anche uno studente che stava diventando
famoso come leader della contestazione studentesca: Mario Capanna. Taciturno e
faccia tirata, bicchiere in mano. Lo rividi in facoltà qualche giorno dopo,
all’Università Statale degli Studi, con il suo eskimo, seduto su dei gradini
mentre parlava contornato da altri studenti.
Erano anni di grande fermento.
L’Europa era percorsa da un brivido, uno scontro generazionale violento da ambo
le parti. Da Parigi, con Daniel Cohn-Bendit conosciuto come Dany le rouge,
elfo dai capelli rossi e futuro leader dei Verdi, l’onda del maggio ’68 si era
espansa fino a noi ed era arrivata anche in Germania dove aveva trovato Rudy Dutschke,
Rudy il rosso. Nascevano i
movimenti studenteschi, la rivolta dei giovani contro “il sistema”, la mitica
alleanza con la classe operaia, l’utopia della “fantasia al potere” e della
voglia rabbiosa di un cambiamento radicale e immediato. Le manifestazioni di piazza erano all’ordine
del giorno. Gli scontri con la polizia, continui. Gli arresti, i feriti, a
volte un morto. Un paio di volte ho partecipato ma la violenza di quei momenti
mi respingeva. Si stavano preparando gli anni di piombo e la strategia della tensione, il Terrorismo Rosso
e il Terrorismo Nero. Ma non solo in Italia. La seconda metà degli anni ’70
vide svilupparsi il terrorismo in diversi Paesi europei.
Non conoscevo bene le usanze di
Milano e, in più, non ero molto interessata ad esse. Una sera di dicembre
dovevo raggiungere a piedi una strada del centro. Dovevo passare per Piazza
della Scala ma mi trovai bloccata da diverse transenne. Stava succedendo
qualcosa. Vedevo da lontano molte luci. Riuscii a dribblare qualche transenna e
mi ritrovai davanti ad uno spettacolo sconcertante: una massa di eskimo urlanti
e agitati che lanciavano oggetti contro una sfilata di signori e signore
vestiti lussuosamente che scendevano da macchine scintillanti e si avviavano
all’entrata del Teatro. Era il 7 dicembre, la passerella delle autorità e delle
persone famose all’apertura di stagione di uno dei più prestigiosi teatri
mondiali. Quella sera, l’ERNANI di Verdi. Debuttava Placido Domingo.
Placido
Domingo nell’ OTELLO
La contestazione li aveva presi a bersaglio. Fu uno dei momenti violenti di una lunga serie sempre più tragica.
All’aperitivo di quel salotto letterario, un signore dai modi galanti e l’aria gentile mi invitò ad una festa che si sarebbe svolta qualche giorno dopo. Ero curiosa di conoscere l’ambiente che mi circondava e accettai. Mi venne a prendere con l’autista e arrivammo alla sua villa di Segrate. Appena entrati nel salone si fece silenzio e tutti guardavano sull’entrata me e il padrone di casa: vidi molte persone e alcune intorno a un giovane alla chitarra, un ciuffo di capelli castano chiaro gli scendeva di lato sugli occhi. Il menestrello mi guardò con un sorriso e poi riprese a suonare. La sua voce era suggestiva e sensuale, leggermente nasale, i versi che cantava una novità assoluta nella musica leggera italiana, il suo volto mi sarebbe divenuto familiare. Era Fabrizio De Andrè.
All’ufficio stampa della Rizzoli c’era fermento, si stava preparando un evento: la presentazione del secondo libro del calciatore più famoso del momento, Gianni Rivera. Il Golden Boy del calcio italiano, l’idolo degli stadi, era simpatico, bello e spiritoso seppure piuttosto minuto rispetto ai calciatori di oggi. C’era allegria e vitalità a quella presentazione, persino lo stato maggiore della Casa Editrice era meno impettito del solito e quando un anno più tardi lo rividi in televisione ai mondiali nella partita più famosa di tutti i tempi, la “partita del secolo”, con la serie mozzafiato dei rigori e la serpeggiante rivalità non solo fra due squadre ma fra due popoli, la storica “Italia-Germania 4 a 3”, per un momento amai il calcio.
Intanto scrivevo racconti e poesie, inarrestabile flusso. Tutto nel cassetto. Nei rari momenti di pausa dal lavoro riprendevo ad occuparmi anche del mio argomento preferito: i testi sacri antichi.
Tornata a Roma, ebbi finalmente il mio primo contratto stabile come praticante giornalista. Agenzia Giornalistica Italia, la seconda più importante dopo la prima in assoluto, l’ANSA. Avevo in pugno la chance di diventare ufficialmente giornalista ma non fu senza spine.
Eccomi, colta di sorpresa
dalla macchina fotografica, sulla Costa Azzurra con il mare fuori stagione, il
mio preferito. Una vacanza-premio auto-concessami appena superati i faticosi
anni di gavetta e l’esame di idoneità all’iscrizione all’Albo dei Giornalisti
Professionisti
I giornalisti delle agenzie
non firmano con il proprio nome ma con delle sigle però i loro “pezzi” possono
andare contemporaneamente su più giornali. Andavo alla scoperta ogni giorno su
quanti giornali finivano i miei lavori. Una volta uno finì in grande rilievo
sul quotidiano più importante del momento, il Corriere della Sera: era su
Ustica, la caduta in mare del DC-9 dell’Itavia. 81 morti senza un colpevole. Ero
riuscita ad intervistare il proprietario della compagnia aerea, Aldo Davanzali,
e le sue dichiarazioni controcorrente suscitarono molto scalpore. Il direttore
mi convocò per congratularsi. Ero appena rientrata in sede dopo un distacco di
tre anni alla Questura Centrale di Roma.
Ogni giorno succedeva qualche
fatto violento di grande importanza: incidenti di piazza, attentati, sequestri
e i cosiddetti “espropri proletari”. Correvo continuamente nella sala stampa
della Questura Centrale di Roma per seguire non solo quanto accadeva ma gli
sviluppi di ogni singolo evento. La Polizia faceva conferenze stampa ogni 24
ore. Nello spostarmi perdevo minuti preziosi: data per scontata la assoluta veridicità
delle notizie, il prestigio di un’agenzia si basa sulla loro tempestività. La
Direzione decise allora di distaccarmi lì e mi accreditò: ogni mattina non
andavo più in redazione ma direttamente nella sala stampa della Questura dove
avevo trovato già i colleghi di alcuni giornali e delle altre agenzie e dove,
data l’intensità del momento, altri ogni giorno si aggiungevano. Non c’erano
più orari, pause, nulla. Molto spesso, con un evento in sviluppo, facevamo le
ore piccole. A volte, per allentare lo stress della giornata a fine corsa andavamo
a passare due minuti nell’unico bar del centro aperto dopo mezzanotte. Andrea
Purgatori, divenuto poi famoso per non aver mai mollato l’inchiesta sulla
tragedia di Ustica, un DC9 precipitato in mare, 81 morti, riusciva sempre a
strapparci un sorriso. Fino all’ultimo minuto trasmettevo in agenzia le notizie
appena arrivate, in costante gara di velocità con tutti gli altri colleghi. Un
pomeriggio riuscii ad intercettare l’inseguimento spettacolare e la cattura di
due esponenti dei Nuclei Armati Proletari, Franca Maria Salerno e Maria Pia
Vianale. Lo scontro a fuoco aveva lasciato a terra un altro militante nappista
che era con loro. Mi precipitai sul luogo della cattura e trovai ancora alcuni carabinieri
a cui chiesi i particolari.
Le Brigate Rosse e le altre
formazioni che si ispiravano a loro erano il chiodo fisso di noi giornalisti:
chi erano veramente, dove si nascondevano, c’era l’ipotesi che venissero
manovrate e su chi fossero i manovratori tutti si sbizzarrivano. Ma le teorie
erano solo veli nel vento: si sfacevano e rifacevano ad ogni colpo di corrente.
E venne la mattina fatidica
del massacro di via Fani, il sequestro di Aldo Moro. Furono 55 giorni di
suspence, di false notizie, di corse inutili in questo e in quel luogo
segnalato come “prigione”, di rincorsa dei vari “comunicati” dei brigatisti. Una
tensione continua ma nulla. I politici si spaccarono, Papa Montini scrisse una
lettera alle BR. Finché ci ritrovammo tutti impietriti a via Caetani davanti ad
un cadavere semi-rannicchiato in una Renault 4 rossa aperta, simbolicamente
ferma a metà strada fra Via delle Botteghe Oscure, sede del Partito Comunista,
e Via del Gesù, sede della Democrazia Cristiana: i due partiti del nuovo
“compromesso storico” al quale Aldo Moro aveva lavorato con Enrico Berlinguer,
i due nomi principali su tutti, tessendo e ritessendo una tela politica
finissima.
La storia politica italiana cambiava corso. Per vicende familiari legate strettamente alla politica e non al giornalismo avevo visto nascere e muoversi quel progetto politico, conoscevo da tempo Enrico Berlinguer e la sua straordinaria, pressocché unica, tensione verso grandi ideali. E avevo conosciuto privatamente, sia pure di sfuggita, sia Aldo Moro che Giulio Andreotti.
Davanti a quella Renault rimasi senza parole e fu faticoso scrivere.
Passato qualche tempo cercai nuove
strade e bussai alla porta di un settimanale che mi era sempre piaciuto molto:
L’Espresso. Il direttore mi accolse con molta cordialità. L’assunzione era
possibile ma prima dovevo cimentarmi in qualche prova. Mi presentò a Paolo
Mieli, allora firma emergente del giornalismo italiano e insieme, con piena
sintonia, ideammo, svolgemmo e scrivemmo a quattro mani una inchiesta. Fu un
successo. Continuai da sola. Lavorare all’Espresso sembrava un obiettivo
raggiunto. E da così giovane.
Ma erano in molti a bussare a
quella porta, nomi di grido. Uno vinse sugli altri, su di me. L’assunzione mi
scivolò tra le dita.
Di lì a poco entrai in RAI, alla Radio
per l’Estero. Ma stava nascendo il terzo telegiornale nazionale e il direttore
stava cercando giornalisti in gamba: bisognava competere negli ascolti con i
giganti del Tg1 e del Tg2 che dominavano il piccolo schermo, imporsi
all’attenzione di una platea già stabilmente divisa tra il primo canale il
secondo, arrivare prima di tutti e stupire. Fui chiamata a far parte della
squadra e affrontai per la prima volta nella mia vita il nuovo rapporto con il
giornalismo d’immagine, il reportage televisivo. Fu un’avventura entusiasmante.
Dopo un breve periodo in redazione per imparare il funzionamento della macchina televisiva, (i vari passaggi di confezionamento del telegiornale, i tempi incalzanti di realizzazione, le strutture di riferimento, la sala incisioni, il montaggio delle immagini) divenni Inviata Speciale e cominciai ad andare negli altri Paesi.
L’Africa per cominciare. L’Etiopia.
Sull’altopiano etiope, nei pressi di Addis Abeba, con la guida locale
Etiopia, la battitura del grano
Harar, importante snodo commerciale a 500 km. a nord-est di Addis Abeba, nella casa del “poeta maledetto” Arthur Rimbaud dove, durante la sua avventurosa vita, soggiornò alcuni anni intorno al 1881 mantenendosi con il traffico di armi, di caffè, di oro. Sul soffitto e sulle pareti i segni, qui invisibili per via del buio, della sua follia di consumatore di chat, un’erba locale con effetto simile alle amfetamine. All’esterno la casa in quel periodo era così. Ora, restaurata, è un museo.
E poi, Eritrea, Somalia, Namibia, Sudafrica, i Paesi del Maghreb. Grandi inchieste per aprire nuove porte e posare lo sguardo su realtà in movimento. La Namibia mi era rimasta negli occhi: l’azzurro del cielo, il dorato dei deserti, gli spazi sconfinati e, di notte, le stelle enormi e così vicine da sembrare che sbucassero dal manto blu-nero della notte e parevano caderti addosso. Uno spettacolo che non mi faceva dormire. Ma dovevo occuparmi dei molti fermenti politici e sociali e non erano di poco conto.
Ogni inviato che si rispetti deve essere capace di crearsi dei contatti locali in ogni destinazione per muoversi senza sbagliare e trovare informazioni corrette in fretta. A volte è difficile per mille motivi. La Namibia era uno di questi posti, pullulante di servizi segreti e fazioni politiche di vario genere sempre in lotta. Stava finalmente uscendo dallo status di colonia dello Stato del Sudafrica per andare verso l’indipendenza e verso la fine dell’apartheid.
Partii per Windhoek, la capitale della Namibia. La RAI aveva prenotato per me e per il cameraman un viaggio in normale seconda classe ma una volta arrivati all’aereo si scusarono con noi perché non c’era più posto, cosa strana ma poteva succedere, e ci trasferirono in prima classe. Inclusi noi due, eravamo appena cinque persone. Fu un viaggio comodissimo, dormimmo tutta la notte sdraiati su ampi lettini. Quando stavamo per atterrare, mi accorsi che una delle altre tre persone con noi era il rappresentante speciale dell’O.N.U. per la Namibia, il Presidente della Finlandia Martii Ahtisaari, futuro Premio Nobel per la Pace proprio per la sua opera in favore della pace in diverse situazioni altamente conflittuali come in Namibia. Quando il portellone si aprì, un nugolo di telecamere aspettavano Ahtisaari. Non potemmo evitare di scendere con lui tra i mille scatti dei fotografi.
Il mio contatto a Windhoek era un giovane e coraggioso avvocato
di etnia bianca, tra i principali esponenti della lotta anti-apartheid in
Namibia. Ispirato da Nelson Mandela e dalla sua lotta per la creazione di un
fronte multirazziale contro l’apartheid, era entrato in politica. Nelle nostre
telefonate fra Roma e Windhoek, vista la situazione ancora instabile, avevamo
parlato un po’ in codice. Leggermente abbronzato per le lunghe partite a tennis
con cui cercava di segnare una vita normale mentre era pedinato dalla polizia
segreta, mi presentò la sua fidanzata e mi invitarono a cena.
Rimasi a Windhoek una decina di giorni riuscendo ad essere, grazie principalmente a lui, sempre nei posti giusti per cogliere questa storica trasformazione e comprenderla nelle sue pieghe. Tutta la variegata popolazione festeggiava a ruota libera: sfilate per le strade, comizi politici e sindacali, balli e canti nelle piazze. Alla fine, si unirono anche gli Himba, una tribù del nord con una storia molto specifica e restii ad integrarsi. La pelle nuda coperta di polvere di ocra rossa trattenuta da un grasso di cui si cospargevano il corpo, le acconciature rituali, il passo da guerrieri, alcune donne con i neonati sulla schiena, erano uno spettacolo nello spettacolo. Il cameraman Vincenzo Baldelli cercò di mescolarsi a loro per riprenderli da vicino ma non fu facile.
In rosso, la Namibia
La Namibia era piena di sorprese: seppi di un tratto di spiaggia
transennato e guardato a vista da militari armati. Era il punto in cui sulla
battigia davanti all’oceano affioravano diamanti purissimi. Non resistetti alla
curiosità e andai ma potei avvicinarmi solo un attimo. Fui subito allontanata.
Le distanze del Paese, scarsissimamente popolato, erano enormi: nella
savana non ci si poteva spostare in jeep, si poteva usare solo l’aereo. Piccoli
biposto ultraleggeri. Molti residenti se ne erano dotati e scoprii diverse
fattorie di proprietà di italiani. Erano fattorie gigantesche, molte di 500
chilometri quadrati, quasi un decimo del territorio della Liguria.
Due deserti, oceano, dune cangianti, savana, immensi parchi
naturali e stelle. Una terra magnifica.
Tornai a Roma a malincuore: la Namibia non era più una colonia ma
una Repubblica e il mio compito era finito. Avevo visto da vicino che il mio
contatto, il giovane avvocato, era molto popolare, amato dalla gente e ammirato dai politici. Aveva
fatto molto per tutti loro.
Qualche mattina dopo in redazione ebbi un colpo: lessi su un’agenzia
inglese che era stato assassinato a colpi di pistola mentre rientrava a casa.
Probabilmente un agguato delle milizie segrete pro-apartheid. Nel loro mirino lui lo
era da molto. Una vendetta di puro rancore perché ormai, anche uccidendolo, non
si poteva tornare indietro. La fine dell'apartheid era nella Storia.
Si chiamava Anton Lubowski.
È diventato un eroe nazionale.
Anton Lubowski
Un pomeriggio di poche settimane dopo il direttore irruppe in redazione. Non lo aveva mai fatto: «Chi conosce il tedesco?» Il grido era quasi disperato. Nel silenzio sconcertato di tutti, dissi con poca convinzione «Io». Sì, lo conoscevo ma non molto, non così bene come l’inglese e il francese. Non sapevo se potesse essere adeguato alle sue ignote intenzioni. Il direttore mi guardò e urlò: «Parti subito per Berlino!». Non me lo feci dire due volte. Era il fatidico 1989, le ultime settimane. Da qualche giorno lì stava succedendo di tutto: quello che sapevo della lingua tedesca, riflettei, bastava a districarmi tra i fatti, farmi capire i titoli dei giornali, un po’ di televisione, parlare con la gente per strada, capire a grandi linee una conferenza stampa.
Piombai nella capitale tedesca
e la trovai in pieno caos. Eravamo in tre: il cameraman, il tecnico del suono
ed io. Come primo momento ero senza contatti ma poi trovai tutto.
Cominciai da Berlino Est, volevo stare nel punto più delicato del cambiamento: da lì, prima tappa, il Muro. Era tutto sconvolgente ed esaltante. Andai subito al Muro: impossibile passare, una folla esorbitante si ammassava nelle strade e tutta intorno e sopra il simbolo di una divisione odiata.
Cercammo comunque di dare l’impressione di tutta quella euforia, quella smania, quella voglia di futuro mentre i Vopos, i famigerati poliziotti guardiani del Muro, rimanevano impalati a guardare il fallimento della loro funzione. Immobili e spaesati. Nessuno aveva ancora dato loro l’ordine di andarsene.
Trascorsi alcuni giorni e
alcune notti a riprendere quello che succedeva per le strade, nelle fabbriche, nelle
università, nelle famiglie, sia a Berlino Est che a Berlino Ovest. Le
iniziative erano continue, alcune oscurate da un velo di tristezza.
Frammenti del Muro di
Berlino raccolti da me sul posto
Una mia amica e collega del
TG1 mi telefonò: era entusiasta dei miei reportages, avrebbe voluto esserci
anche lei sia pure a titolo personale perché era in vacanza. Le dissi di venire
subito, l’avrei portata con me nel mio lavoro. Era Gianna Radiconcini, una
pioniera, la prima giornalista ad essere nominata corrispondente della Rai in
una sede estera, Bruxelles. Lei aveva infranto quello che le americane
chiamavano the
glass ceiling,
“il soffitto di vetro”, l’impossibilità per le donne, da tutti taciuta e
sottintesa, di arrivare ai massimi di una carriera.
Con l’amica e collega del TG1 Gianna Radiconcini a
Roma il 15 maggio 2019 alla presentazione del mio libro su Gerusalemme, lei con
in mano il mio libro e io con il suo, “Memorie di una militante azionista.
Storia della figlia di un onesto cappellaio”, la sua avventurosa e coraggiosa
vita
Ci ritrovammo a percorrere le vie di questo cambiamento epocale, la fine dei blocchi e della Guerra Fredda, andammo a diverse conferenze dei dirigenti della ormai morente D.D.R - la Germania Orientale - e nelle chiese dove ancora si radunavano i dissidenti tra i quali emergevano nuovi leader politici. Fu un finale d’anno straordinario. Si chiudeva un’epoca e se ne apriva un’altra.
Sul famoso “ponte delle spie”,
il ponte simbolo della Guerra Fredda, con la mia assistente Petra Koenig: segnato
a metà - sotto l’arco - da una linea che separava il mondo dell’Est e il mondo
dell’Ovest. Veniva attraversato dalle spie occidentali catturate dai sovietici
e dalle spie sovietiche catturate dagli occidentali ogni volta che i due
schieramenti patteggiavano una restituzione. Un classico del giornalismo, della
narrativa e dell’immaginario dell’epoca.
Passate le feste in famiglia,
dovetti tornare presto a Berlino. Caduto il velo del silenzio, tutta la
Germania Est era da scoprire e da far scoprire ai telespettatori: gli aspetti
sociali, economici, culturali, i problemi dell’integrazione con l’ovest, così
distante eppure così agognato. L’aspetto economico e industriale era preponderante.
Il Cancelliere federale di allora, Helmut Kohl, stava preparando una soluzione
che faceva paura a tutti in Europa: equiparare il piccolo marco dell’est al
solido marco dell’ovest. La prima integrazione doveva essere questa: avrebbe
portato a tenere sotto controllo tutte le frustrazioni sociali latenti e le
derive conseguenti. Alcune erano già evidenti: la caduta della separazione fra
le due Germanie aveva portato qualche partito tedesco a parlare del ritorno
della “grande Germania” e qua e là, soprattutto nella parte Est, apparivano violenze
di strada dei cosiddetti “naziskin” e adunate e bandiere che si ispiravano al
nazismo. Intervistai il rabbino capo della grande Sinagoga di Berlino rimasta a
Berlino Est dopo la divisione della città, un simbolo lui e un simbolo la
Sinagoga. Era un uomo dolente: le ferite del nazismo, le asprezze del
dopoguerra ma anche, ora, con la fine dell’isolamento, l’inizio di una
rinascita.
La notte tra il 30 giugno e il 1° luglio 1990 Berlino non dormì e io feci una diretta notturna per il telegiornale in una piazza dove, davanti ad un enorme countdown elettronico, a mezzanotte precisa scattò l’unificazione monetaria fra le due Germanie: tutto il mondo guardava di nuovo a Berlino e a Berlino erano tutti per le strade di nuovo, come per la caduta del Muro un anno prima. Anche questa volta molti stappavano bottiglie di champagne e riempivano l’aria di grida di gioia e di cori. L’unificazione economica era un fatto, i tedeschi dell’est non si sentivano più inferiori.
Mentre erano ancora in corso tutti gli eventi scatenati dalla caduta del Muro di Berlino, era scoppiata la Prima Guerra del Golfo. Fu chiamata la “prima guerra del villaggio globale”: un imponente schieramento mondiale di forze contro il dittatore iracheno Saddam Hussein che aveva messo sotto sequestro i pozzi petroliferi del Kuwait invadendo il piccolo Stato. Gli Stati Uniti non potevano accettare una simile sfida e la risposta fu massiccia. La parte finale della guerra fu chiamata “Desert Storm”, una serie di operazioni militari con potenza di fuoco eccezionale. Al temine, fine febbraio 1991, rimanevano povertà e devastazione. Emergeva, drammatico e pesante, il dramma dei Palestinesi. Distrutti dalla povertà e dal terrore delle angherie del regime kuwaitiano ostile alle scelte politiche di Yasser Arafat, fuggirono in massa, un vero esodo. Leggendo alcuni studi sulla situazione, decisi di proporre al direttore del Tg di andare a guardare cosa stesse succedendo. Partii. Ero già stata un paio di volte in Israele e le condizioni di vita dei palestinesi mi avevano molto colpito. Gerusalemme divisa e come congelata nell’atmosfera militare di città in guerra nonostante il periodo di pace, la difficile e fredda convivenza non solo fra le religioni principali ma anche fra i mille rivoli di ogni religione, compresa quella ebraica.
I palestinesi venivano
sospinti in mille modi e ogni giorno di più ai margini della vita sotto gli
occhi impotenti del mondo e a dispetto dei trattati. Lo avrei visto meglio
quando andai privatamente e con il tempo a disposizione, non mentre stavo lì per
conto di una televisione ufficiale.
Scelsi il Libano
Sul lungomare di
Cipro in attesa dell’aereo per Beirut
Quindici anni di guerra civile
avevano distrutto i libanesi e decimato la popolazione palestinese. Questo
popolo mi sembrava un dannato della Terra. All’epoca, dicendo Libano dicevi
Siria, cioè la strategia di potenza della minoranza alauita al potere, gli Assad,
con l’obiettivo della Grande Siria. Entrai nel campo profughi di Sabra e
Chatila.
I superstiti del massacro
israelo-libanese di anni prima erano ancora nella povertà più assoluta,
famiglie numerose assembrate in piccole case malandate che sarebbe meglio
definire tuguri, bambini vestiti di stracci ma sorridenti e dolci, appena
appena una scuoletta e una piccola sede dell’O.L.P. E i profughi continuavano
ad arrivare.
Ma la stessa Beirut, ancora
ferita dalla lunga guerra civile fra cristiano-maroniti e musulmani, era
impossibilitata ad offrire qualcosa. Di quello che era stato un paradiso (anche
fiscale) sulle rive del Mediterraneo era rimasto un desolato ammasso di case
sventrate, solo buchi contro il cielo e macerie. E la paura, di chiunque.
Serpeggiava nelle strade deserte, bloccava la vita.
Mentre sto scrivendo queste righe, Beirut è scoppiata di nuovo. La pace concordata alla fine della guerra civile è stata un lungo periodo di non pace e di incapacità politica. La corruzione degli apparati e la loro inadeguatezza ad occuparsi del bene comune, l’inflazione da capogiro, tasse e collasso dei servizi pubblici hanno portato la popolazione allo stremo della povertà e alla rivolta contro le ingiustizie. La scintilla: una devastante esplosione al porto che ha raso al suolo quasi mezza città e ha portato i libanesi (tutti uomini o quasi) in piazza e nelle strade, una violenza incontenibile alla quale le forze di polizia hanno risposto brutalmente.
La situazione della Beirut di allora mi rimandava continuamente alla Siria e a quel punto andai anche a Damasco, il centro di tutti gli eventi, palesi e nascosti. Passai per le Alture del Golan occupate da Israele nella Guerra dei Sei Giorni per portare a chi seguiva il telegiornale situazioni storico-sociali pressocché sconosciute, attraversai presidi militari e la città fantasma di Quneitra, sfiorai il Monte Hermon di biblica memoria.
Sulle alture del Golan, davanti alle rovine di Quneitra, la città fantasma
A Damasco intervistai esponenti ufficiali e non emergeva nulla ma nelle pieghe delle mie esplorazioni avevo saputo di un ricercato del partito ribelle del Kurdistan e ottenni di intervistarlo. Fu dopo il tramonto, un palazzo della periferia damascena, il portone sorvegliato da due guardie armate. Andammo, il cameraman ed io, superata la trepidazione e divenuti imperterriti. Il “terrorista”, pingue e dagli occhi di iena, stava ad aspettarci in una stanzetta minuscola senza finestre al termine di una ripidissima scaletta. Solo una porta aperta e lui seduto dietro una piccola scrivania davanti alla porta: aveva il controllo totale dell’accesso, chiunque avesse voluto attaccarlo sarebbe morto su quella scaletta. Terminammo: portavo a casa un documento storico ma l’utopia di un solo Kurdistan che riuniva quel popolo smembrato è ancora un’utopia.
Andai ad una conferenza della Lega Araba
a Tunisi. Vidi Yasser Arafat sul podio, parlò dell’Intifada palestinese e del
difficile processo di pace al quale stava tenacemente lavorando. A sorpresa
arrivò anche Gheddafi: lo vidi all’entrata mentre arrivava, ero uscita a
prendere un po’ d’aria. Scese tutto solo da una vecchia Fiat tutta verde, il
suo colore simbolo come quello dell’Islam, come il suo Libro Verde. Non
la faceva guidare a nessuno. Non si fidava di nessuno. Non aveva guardie del
corpo. L’avevo immaginato più alto. Entrai nella sala con lui per vedere cosa
potesse succedere. Nulla. Si fece strada da solo e si sedette sulla prima
poltroncina libera, apparentemente tra l’indifferenza generale.
Tornai presto in Germania: ogni volta che partivo non sapevo mai quando sarei tornata. Andavo di città in città ad esplorare la situazione. La strage di Capaci mi sorprese a Berlino. L’opinione pubblica tedesca, sensibile al tema della mafia italiana, ne fu molto colpita e dette grande rilievo alla notizia su tutti i mass media. Proposi al tg di darne conto e al “sì”, davanti ad un’edicola della strada più frequentata di Berlino Ovest, la Ku’damm – abbreviazione corrente della Kurfürstendamm Strasse – mandai a Roma tutte le prime pagine dei giornali tedeschi che trovai con i titoli della strage e la foto di Giovanni Falcone e aggiunsi i resoconti dei tg che avevano parlato dell’assassinio del magistrato, di sua moglie e della scorta. Falcone, per la sua figura integerrima e per la sua indefettibile posizione antimafia, era un personaggio conosciuto e apprezzato e l’eco della sua morte durò a lungo in Germania.
Intanto, ripresi a scandagliare la
situazione della ex Germania Est, soprattutto l’andamento della trasformazione
industriale, cruciale per una Germania Ovest definita durante la guerra fredda
“gigante economico e nano politico”, sembra dal Segretario di Stato americano
Henry Kissinger. Cercavo anche storie particolari. E me ne capitò una davvero
inaspettata. Venni a sapere che il Dalai Lama, la suprema autorità spirituale e
allora anche politica del Tibet, si trovava di passaggio in Germania. Eravamo
intorno all’anno di uscita del film di Bernardo Bertolucci Piccolo Buddha.
L’argomento era di attualità e lo contattai immediatamente. A sorpresa, mi
ricevette subito. In una grande villa-monastero circondata di verde e tutta
arredata in legno, mi ricevette sul far dell’inverno avvolto solo nella sua
tunica amaranto e giallo, braccia completamente scoperte, contornato da altri
monaci ugualmente abbigliati. Nel 1989, proprio nella stagione della caduta del
Muro di Berlino, aveva ricevuto il Nobel per la Pace per aver sempre affermato
che il Tibet avrebbe dovuto godere dell’autonomia dalla Cina senza fare ricorso
alla violenza. Il cameraman lo riprese mentre camminava per la grande casa e
facevamo una breve passeggiata nel parco sotto un vento gelido. Le sue
affermazioni sulla felicità legata alla compassione per gli altri, un caposaldo
della pratica buddista, il suo credere nella democrazia, il suo sorriso sempre
a fior di labbra, la sua agilità fisica che sbaragliava l’età, furono i
componenti principali di quell’intervista che ebbe un notevole successo. Il
caporedattore culturale del telegiornale mi disse che aveva avuto tali
apprezzamenti che aveva deciso di replicarla.
Davanti
alla residenza del Dalai Lama nei pressi di Francoforte con la mia assistente
Petra Koenig
Il lavoro in Germania stava rallentando.
Ormai il più era avvenuto e cominciavo ad andarci sempre di meno. Feci una
lunga inchiesta sulle ramificazioni della mafia italiana in Germania. La
polizia di alcuni Länder era sulle tracce di individui sospetti e seguiva dei
filoni. Tentai di avere dichiarazioni ufficiali anche se generiche ma mi fu
impossibile: solo il Dipartimento Federale poteva rilasciare dichiarazioni e lì
mi dissero che non ve ne erano le condizioni. Però, riuscii a cavarmela
ugualmente e misi insieme uno speciale. Anche quello fu molto apprezzato ed
ebbe una replica.
Poi, mi venne proposto di fare, quando non ero in viaggio, la rassegna stampa internazionale del telegiornale, un’idea tutta del direttore e allora fummo i primi, e anche gli unici, ad offrirla ai telespettatori. Da mezzanotte in poi, quando le prime pagine dei quotidiani stranieri erano arrivate, traducevo e leggevo davanti alla telecamera i titoli di quelle prime pagine mostrando quali erano i temi più scottanti nelle varie parti del mondo, seguendone anche gli sviluppi notte dopo notte. A volte si intrecciavano con i fatti italiani e la cosa si faceva molto interessante.
Durante una rassegna della stampa internazionale nel TG della notte
Un giorno il direttore mi propose di tornare in Somalia, Paese in subbuglio dalla morte del generale Mohammed Siad Barre. Lotte intestine minavano la stabilità della zona, la situazione era molto confusa e pericolosa, soprattutto per gli italiani. Riflettei brevemente e poi rifiutai. Seppi che anche per i cameramen c’erano problemi. Una giovane collega arrivata da poco e appassionata di quel Paese accettò di andare. Il cameraman, dopo lunghe ricerche, fu trovato alla Rai di Trieste. Erano Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Dalla notizia della loro sparizione al ritrovamento dei due cadaveri passò solo il tempo di una fucilata.
Una novità dalla Gran Bretagna e dagli
Usa stava spopolando sul piccolo schermo mondiale: il canale all-news, notizie
solo notizie senza interruzione 24 ore su 24. La Rai decise di lanciare il
proprio canale all-news e cominciò a preparare il futuro RAI NEWS 24. Il nuovo
direttore mi chiamò e lasciai il TG3. Mi trovai in un mondo tecnologico molto
avanzato, non facevo più l’inviata ma stavo in redazione con incarichi di volta
in volta diversi a seconda di come si decideva nella riunione della mattina.
L’organizzazione del lavoro era molto diversa da quella del telegiornale:
bisognava rispondere alle sollecitazioni di ogni momento dall’Italia e da ogni
parte del mondo, monitorare le varie emittenti televisive occidentali e
orientali, estrapolare servizi ed informazioni, 24 ore su 24, e confezionarle
in modo coerente. Andavo in onda tutti i giorni, un telegiornale dopo l’altro.
Mi fu anche affidata una
rubrica settimanale di interviste a personaggi della cultura, della politica,
della società, non solo italiani. Prendevo spunto dai libri che venivano
pubblicati ma anche dai fatti di cronaca più importanti spesso legati a grosse
associazioni internazionali come Greenpeace o Amnesty International.
E c’era un personaggio della nostra
cultura su cui avevo messo gli occhi. Una sua creazione letteraria, il
Commissario Montalbano, stava riscuotendo un successo enorme non solo nei libri
che venivano tradotti in tutto il mondo ma anche nella serie televisiva che la
RAI ne aveva tratto e stava mandando in onda sul canale più importante. Ma
Andrea Camilleri sembrava irraggiungibile. Sapevo di colleghi di grande nome
che avevano tentato inutilmente di ottenere di intervistarlo. Era un periodo, un
lungo periodo, in cui viveva completamente ritirato e non accettava contatti
con la stampa. Non mi detti per vinta in anticipo e tentai: il mio fax ottenne
immediatamente una risposta positiva. Non credevo ai miei occhi. C’era anche un
numero di telefono: prendemmo accordi.
Camilleri arrivò nello studio di RAINEWS 24 una mattina sul tardi e ne uscì a metà pomeriggio: lo avevo avvertito che lo avrei “sequestrato”. Mi disse che aveva accettato di farsi intervistare da me perché mi conosceva e aveva apprezzato i miei lavori, soprattutto la rassegna della stampa internazionale.
Fu un momento fantastico. Parlò a lungo della sua amatissima e tormentata Sicilia nella quale ambientava tutti i romanzi di Montalbano, dell’invenzione non solo di Vigata ma anche della lingua tutta particolare parlata dai suoi personaggi e quando gli chiesi come nacque il personaggio del commissario di polizia più famoso del momento mi disse che si era ispirato a suo padre, ispettore di quelle che allora si chiamavano Compagnie Portuali: i tratti bruschi del carattere, la forte etica, il suo essere di poche parole, il suo pragmatismo, l’amore per il mare. Salvo Montalbano era un omaggio a suo padre. Era la prima volta che ne parlava e la sua voce per qualche istante tremò quasi impercettibilmente. Poi ne parlò più volte in seguito ma senza quella commozione. Il personaggio di Montalbano, però, era anche un mix: il nome glielo ispirò uno scrittore di gialli molto amato, il catalano Manuel Vázquez Montalbán, creatore del personaggio del detective privato Pepe Carvalho mentre l’ambientazione poliziesca e le trame erano ispirate da un’altra sua passione, Georges Simenon e il suo commissario Maigret. Di Simenon aveva grande ammirazione come scrittore, in particolare per i suoi romanzi, un lato meno popolare dell’autore di gialli di successo e ne era rimasto vivamente colpito.
Il Pepe Carvalho di Montalbán, era anche cuoco e gourmet e il commissario
Salvo Montalbano, che nei romanzi sta pochissimo ai fornelli, gli si
avvicinava, però, come grande amante e buongustaio della cucina siciliana.
Chiesi a Camilleri di leggere
il brano in cui Montalbano, che ne va pazzo, si trova finalmente a gustare una
ricca teglia di arancini fatti in casa. La accurata e quasi mitica preparazione
era conosciuta molto bene da Camilleri perché era la medesima alla quale
assisteva mente si svolgeva nella grande casa della sua gioventù. Ci volevano
almeno due giorni per fare gli arancini, mi disse. E con un sorriso per i bei
ricordi, si prestò volentieri. Mentre leggeva, in piedi sul podio con la
telecamera che lo riprendeva, con quella sua voce roca e profonda, mi sembrava
di vedere la scena e di gustarli.
Mi parlò a lungo anche dei
suoi romanzi “storici”, frutto di ricerche appassionate sulla storia della sua
Sicilia. Ci teneva molto, erano pezzi del suo ritrovare la terra natia, le sue
origini, le sue radici. E un elemento di vicinanza in più con il Georges
Simenon romanziere . Mi raccontò, ad esempio, che il romanzo “La concessione
del telefono”, ambientato nella fine dell’Ottocento, era nato da un foglietto scritto
a mano, appena un appunto, casualmente ritrovato nella ricca biblioteca di suo
padre. Su quell’appunto aveva deciso di fare approfondimenti e così nacque il
romanzo. Di questa genesi ho letto anche un’altra
versione ma a me Camilleri ha raccontato questa.
Una scena del film “La
concessione del telefono”
Mi parlò della sua ammirazione
per Luigi Pirandello e del debito che sentiva verso il suo genio. In omaggio ad alcune sue novelle chiamò con il
nome di Montelusa, la città immaginaria inventata dall’autore de I giganti
della montagna, uno dei luoghi in cui si svolge la vita di Montalbano.
Aveva delle preferenze fra i
suoi romanzi “storici” e mi citò Il birraio di Preston ma sopra tutti, Il re di Girgenti, scritto
completamente nel suo amato idioma siciliano: la storia, vera ma romanzata, di
un contadino del ‘700 divenuto capopolo e poi “re” per qualche giorno di
Girgenti, l’antico nome di Agrigento. Anche qui un omaggio a Pirandello.
Agrigento, la Valle
dei Templi
Da quelle ore insieme, ricavai
tre interviste. Un tesoro.
Giovanna Tatò
Ciao Giovanna, dopo aver letto la tua biografia mi sono sentita piccola piccola e molto onorata di averti conosciuta. Le poche chiacchiere che ci siamo rivolte mi avevano presa dalla tua personalita. Ora a distanza di tempo capisco perché mi avevi colpito così tanto sei stata sempre nei miei pensieri e ogni volta che andavo a Capodimonte speravo di incontrarti. Un grosso abbraccio Luisa
RispondiEliminaCara Luisa, ti avevo risposto ma qualcosa non ha funzionato. Scusami. Sono contenta di averti conosciuto e che ci siamo state reciprocamente simpatiche. Non so quando mi ricapiterà di tornare a Capodimonte ma se le cose migliorano magari programmo una scappata. Teniamoci in contatto e presto ci prenderemo un caffè insieme!! Un abbraccio.
EliminaCiao Giovanna, ci conosciamo da tantissimo tempo e ti ho sempre seguita con grande Interesse.
RispondiEliminaHo letto la tua biografia e ho rivissuto momenti importanti della Storia politica e culturale degli ultimi 40 anni.
Come sai anch'io ho sempre lavorato sino a tarda notte alle prese con la mia Arte e spesso con la TV accesa. Perciò raramente mi sono persa le tue dirette stampa e i servizi su TG trasmesse sia dall'Italia che dall'estero. Ti stimo moltissimo.
Complimenti anche per i tuoi attuali successi di scrittura e conseguenti meritatissimi Premi. In attesa di sentirci al cellulare ti abbraccio con grande affetto.
Teresa