Italia sovrana: davvero?

 






Italia sovrana: davvero?

Quando entrai nel giornalismo professionale, notai che i giornali consideravano le notizie internazionali, cioè le notizie di politica estera, “minori” rispetto alle notizie italiane, di politica interna. Mi sembrava un’enorme sciocchezza: il cosiddetto “estero” era in realtà strettamente intrecciato alle vicende dell’Italia, dei paesi che componevano l’Europa e, soprattutto, delle grandi potenze, Stati Uniti in testa. Pertanto, ignorarle oppure relegarle a pagine interne o a trafiletti che sfuggivano ai più non aveva alcun senso informativo. E l’informazione, a mio modo di vedere allora e che è rimasto sempre, era tutto: il lettore aveva il diritto di sapere in modo non superficiale come stavano le cose che lo circondavano e il giornalista aveva il dovere di dare quelle informazioni. Cercarle, verificarle e darle. Per me era il giornalismo.

Con il tempo scoprii almeno un “perché” di tale inottemperanza strutturale della professione nella cui missione credevo: le sue radici affondavano nel lontano dopoguerra, quando l’Italia fu dichiarata sconfitta e messa tra i perdenti della Seconda Guerra Mondiale insieme alla Germania non più nazista e al Giappone di Hiroshima e Nagasaki. I giornali italiani non si decidevano a dare la notizia, prendevano tempo, vi si avvicinavano ma non troppo, aprivano spiragli che non c’erano. La parola “sconfitta” veniva accuratamente evitata: con un tiro di carambola linguistico fu sostituita da un meno comprensibile “diktat”, a volte scritto “dictat”. Essere dichiarati sconfitti, dopo oltre due decenni di strombazzati trionfalismi duceschi (chi può dimenticare le parate militari truccate, i roboanti annunci di “conquiste”) la classe politica, i burocrati, la maggioranza della gente, come potevano, tutti quanti, accettare quell’umiliazione … Fin da allora, quello che veniva dall’estero rimase fondamentalmente fuori dalla porta.

Ma la realtà è un’altra e batte sempre alla porta con i fatti della Storia: il 7 febbraio del 1947 il Consiglio dei ministri presieduto da Alcide De Gasperi, ponendo fine a tutti i tentennamenti, decise di firmare la proposta di resa offerta dai vincitori nel Trattato di pace, noto anche come Trattati di Parigi. La sera stessa il delegato italiano Antonio Meli Lupi di Soragna partì dignitosamente in treno per Parigi dove sarebbe avvenuta la firma il 10 febbraio. Sul tavolo del Quai d’Orsay, Lupi di Soragna vide il tomo del Trattato arrivato in volo dagli Stati Uniti. De Gasperi, però, aveva negoziato con Washington anche aiuti economici per tentare una firma con qualche vantaggio per una Italia devastata dalla povertà e piena di macerie. La firma fu apposta, il fallimento era nero su bianco. Eravamo un Paese a sovranità limitata, provincia dell’Impero e ridimensionata in tutto. 

                      Antonio Meli Lupi di Soragna firma per l'Italia l'accettazione della sconfitta



Le sinistre accusarono il governo di essersi sottomesso, di non aver voluto/non saputo far valere la Resistenza e la ribellione, pur con le sue ambiguità, dell’ultimo anno di guerra. In realtà, la Resistenza e quello che ne era conseguito valse all’Italia una grande possibilità, quella di scriversi da sola la propria nuova Costituzione repubblicana, cosa che non fu concessa a Germania e Giappone. Insieme al referendum “Monarchia o Repubblica” si svolsero anche le prime elezioni politiche per l’Assemblea Costituente che si formò con le menti migliori di allora. Vi erano persino alcune donne come membri. Nacque così “la più bella Costituzione del mondo”.

Ma quel “vassallaggio” intanto c’era: non era una opinione politica propagandistica, era una vera sottomissione fissata da un Trattato internazionale che, sotto molteplici aspetti (militare, commerciale, culturale), è andata avanti come una nebbia invisibile per tutta la seconda metà del Novecento.

E dura tuttora.

Ma oggi, con la consapevolezza più articolata e approfondita dell’oggi, possiamo inserire in questo quadro, desolante ma concreto, una variante, una precisazione di enorme portata: il potere maggiore non viene esercitato dalla politica ma dalla lobbystica, una diffusa, potente lobbystica che manda in punti chiave i suoi “soldati” spesso nemmeno eletti democraticamente, i suoi emissari, i suoi esecutori, che muove le pedine secondo disegni a noi, popolo, invisibili. E ci riesce. Come abbiamo visto di recente con le ultime elezioni europee. Una “mano” pesante, non facilmente decrittabile, guida il gioco vero.

E allora mi domando: ma quali sovranismi, ma quali populismi ….  

Tuttavia, va detto che nel proclamare il “sovranismo”, nello sventolarlo come una bandiera, fa capolino un positivo orgoglio identitario che, però, vale quel che vale: infatti, è come dire, con un popolare modo di dire, che “ci consoliamo con l’aglietto”.

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